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THE LAST OF THE MOHICANS

THE LAST OF THE MOHICANS
(L’ultimo dei Mohicani)
Maurice Tourneur, Clarence L. Brown (US 1920)

Nel 1914 Maurice Tourneur lasciò la Francia e allestì uno studio a Fort Lee, nel New Jersey, ove si guadagnò la reputazione di grande cineasta “figurativo”. I critici salutarono in lui “il poeta dello schermo”, accomunandolo a D.W. Griffith. Come quel grande regista, anch’egli si era circondato di una schiera di colleghi devoti e ricchi di talento. Ma negli ultimi tempi aveva dovuto sostituire alcuni dei suoi uomini migliori.
Il suo primo aiuto regista gli rimase fedele: era un ex meccanico automobilistico di nome Clarence Brown. “Tourneur era il mio dio. Gli devo tutto quello che ho al mondo. Se non fosse stato per lui, sarei ancora lì a riparare automobili”.
Tourneur, che odiava girare in esterni, tendeva a delegare questo compito al suo valente collaboratore, che aveva appreso da lui anche la cruciale arte del montaggio. Nel 1919 Tourneur incoraggiò Brown a dirigere il suo primo lungometraggio, The Great Redeemer (Brigantaggio e redenzione), il cui direttore della fotografia sarebbe stato Charles Van Enger.
Nel luglio 1920 Tourneur partecipò alla formazione della Associated Producers insieme a personaggi quali Thomas H. Ince, Allan Dwan, Mack Sennett e Marshall Neilan. L’intera impresa dipendeva da The Last of the Mohicans, il primo film della nuova società. Dopo due settimane di lavorazione, riferisce Brown, Tourneur cadde dal trabattello di legno di una cinepresa e rimase a letto per tre mesi. Comprensibilmente, questo potenziale disastro non fu segnalato alla stampa; apparve poi un breve comunicato, nel quale si affermava che Tourneur soffriva di pleurite. L’operatore Charles van Enger, intervistato negli anni Settanta, non rammentava l’incidente. Jacques Tourneur ricordava peraltro che il padre si era ammalato di pleurite; a suo avviso, Brown poteva aver girato il 30 per cento del  film. Nel 1969 Van Enger mi parlò tuttavia del 50 per cento, e Richard Koszarski, nel 1973, del 90 per cento. In ogni caso, Tourneur si adoperò con grande generosità affinché Brown apparisse sui titoli di testa come co-regista, circostanza che impresse alla sua carriera un impulso decisivo.
“Dopo di che girai l’intero film”, ricorderà Brown. “Lo realizzammo sul Big Bear Lake e nella Yosemite Valley. Avevo ormai imparato a non girare mai in esterni tra le dieci del mattino e le tre del pomeriggio. La fotografia peggiore si ha intorno a mezzogiorno, con il sole a picco.”
La troupe doveva alzarsi alle quattro del mattino. Si fece largo uso di effetti di luce e di atmosfera stagionale, ricorrendo per esempio a bidoni fumogeni per rendere il filtrare dei raggi del sole attraverso le brume boschive. Un temporale nella foresta fu ricreato da un autocarro dei pompieri. La pellicola ortocromatica non era sensibile al blu, ma Brown riuscì a riprendere le nuvole utilizzando filtri e una nuova pellicola pancromatica ad alta sensibilità. Nel 1969 Van Enger affermò che questo era stato il primo film a usare la pellicola pancromatica.
Racconta Brown: “Quando le ragazze fuggono dall’imboscata degli indiani, piazzai la cinepresa su una specie di carrozzino. Lo costruimmo con l’asse e le ruote di una Ford, una piattaforma e un manico per tirarlo lungo la strada. Seguiamo le ragazze che scappano via; all’improvviso due indiani bloccano loro la strada. La macchina da presa si ferma – il carrozzino si ferma – e questo accentua la sorpresa delle ragazze.”
Benché il padre di Al Roscoe fosse per metà indiano, nel film non compare nessun nativo americano purosangue. (“Al mattino, quando l’aiuto regista faceva l’appello delle comparse indiane, sembrava di sentire l’elenco dei popoli del mondo” ricorda Brown.) Questa mancanza di autenticità attirò al film una buona dose di critiche negli anni Settanta, benché ancora in quel periodo i ruoli di indiani fossero interpretati da attori come Dustin Hoffman. (Spesso si sostiene che Boris Karloff era uno degli indiani, ma quando glielo chiesi, lui mi rispose: “C’ero io in quel film?”)
Alla fine Tourneur prese visione di tutti i giornalieri. Sapeva essere molto brusco. “La prima pernacchia che ho sentito in vita mia è venuta da Maurice Tourneur”, racconta Brown, “e quando l’ho sentita ho capito che bisognava rifare la scena.”
All’opposto, a Brown sembrò di aver vinto un Oscar quando Tourneur mormorò “Non male, signor Brown, non male.” Tourneur era però insoddisfatto dell’interpretazione di Barbara Bedford. Ella aveva al suo attivo un solo altro film – Deep Waters, dello stesso Tourneur (1920) – ma Brown, che pure non la stimava molto come attrice e la trattava un po’ bruscamente, riuscì a ottenere da lei un’interpretazione convincente.
Ben Carré, il brillante scenografo di Tourneur, aveva lasciato la compagnia, sostituito da Floyd Mueller. Reduce da The Great Redeemer, Mueller ammise che la trama non gli lasciava molto spazio per la creazione dei set (a parte Fort Henry, ricostruito negli studi Universal) e che non aveva molto interesse nei riguardi degli indiani. Tourneur poi lo licenziò, sostituendolo con Milton Menasco, scenografo di Sessue Hayakawa.
The Last of the Mohicans si rivelò una produzione alquanto ardua e la società finì con l’esaurire i fondi. In una riunione tenuta a Universal City, Brown comunicò ai dirigenti della Associated Producers che per portare a termine il film occorrevano ancora 25.000 dollari. Dopo aver visto il montaggio preliminare, decisero di concederglieli.
E il film di soldi ne fece, benché fosse stata importata una versione tedesca concorrente (con Bela Lugosi nel ruolo dell’eroe indiano).
Photoplay fu tanto entusiasta del film di Tourneur da proporre che fosse collocato in una cineteca nazionale, “poiché ha trattato con grande dignità un tema importante, senza perderne mai di vista le possibilità cinematografiche”.
Quando nel 1965 vedemmo il film alla Cinémathèque française, Brown disse che il finale era lacunoso. Gli era stato imposto di evitare ogni contatto fisico tra l’indiano e la ragazza bianca, giacché gli incroci razziali erano oggetto di censura, ma nell’ultima inquadratura le mani dei due si avvicinavano sempre di più…
The Last of the Mohicans fu la prima opera importante di una delle personalità più notevoli e sottovalutate del cinema americano: Clarence Brown. Superato l’esame con Tourneur, egli passò alla Universal, ove diresse una serie di eccezionali film drammatici, tra cui Smouldering Fires (La donna che amò troppo tardi; 1925), e poi alla MGM, ove fu il regista di ben sette film con Greta Garbo.
Brown rimase sempre in contatto con il suo mentore. Quando Tourneur, che dopo aver lasciato il lavoro viveva in Francia, rimase gravemente ferito in un incidente stradale, Brown andò a fargli visita ogni volta che poteva e lo tenne sul libro paga per il resto della sua vita.

Kevin Brownlow

regia/dir: Maurice Tourneur, Clarence L. Brown.
asst dir: Charles Dorian.
scen: Robert A. Dillon; dal romanzo di/based on the novel by James Fenimore Cooper (Boston, l826).
adapt: John Gilbert [non accreditato/uncredited].
photog: Philip Dubois [Tourneur], Charles Van Enger [Brown].
scg/des: Floyd Mueller.
mont/ed: Clarence Brown.
co. mgr: Robert B. McIntyre.
make-up, cost: Art Lee.
pubblicità/publicity: James B. Elliott.
locations: Yosemite (tra cui/including Nevada Falls, Vernal Falls, Overhanging Rock), Big Bear Lake, Lake Arrowhead.
cast: Wallace Beery (Magua), Barbara Bedford (Cora Munro), Al Roscoe (Uncas), Lillian Hall (Alice Munro), Henry Woodward (maggiore/Major Heyward), James Gordon (colonello/Colonel Munro), George Hackathorne (capitano/Captain Randolph), Nelson McDowell (David Gamut), Harry Lorraine (Hawkeye), Theodore Lorch (Chingachgook), Jack McDonald (Tamenund), Sydney Deane (generale/General Webb), Joseph Singleton; stuntman: Gene Perkins.
prod: Maurice Tourneur Productions.
dist: Associated Producers.
copia/copy: 35mm, 1560 m., 68′ (20 fps); did./titles: ENG
fonte/source: Eye Filmmuseum, printed in 1991 at Haghefilm Laboratories, from a nitrate print with Tchech intertitles, provided by the Narodni Filmovy Archiv and new English intertitles, courtesy of George Eastman Museum